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1+1=3 ovvero la forza del gruppo

1+1= 3 ovvero la forza del gruppo

Un giorno, un esperto del lavoro di squadra (in inglese “team building”) per spiegare l’importanza del gruppo fece il seguente esempio. Se due persone si scambiano una moneta, rimangono entrambe in possesso di una moneta; se, invece, si scambiano un’idea, acquistano entrambe un‘idea. Due persone, infatti, hanno maggiori risorse, maggiore forza di un solo individuo. Come affermò l’imprenditore statunitense Jean Paul Getty (1892-1976):

“Preferisco contare sull’1% di 100 persone, che sul 100% di me stesso”.

Da sempre e in qualsiasi ambito, la forza del gruppo sovrasta quella dei singoli. Perché è proprio l’appartenenza alla squadra che stimola il singolo a rendere al massimo, superando barriere che da solo non riuscirebbe mai ad affrontare. Per far funzionare un gruppo, occorre, però, che le persone coinvolte si sentano una squadra. Giocare in squadra non vuol dire, semplicemente, “scendere in campo” insieme ad altri. Significa, invece, cambiare mentalità: non mirare, solamente, a massimizzare il proprio risultato individuale, ma occuparsi della vittoria di tutti. Per far questo, occorre preoccuparsi non tanto delle proprie condizioni (fisiche, emotive, ecc.) o dello sviluppo delle proprie capacità professionali ma, soprattutto, di quelle di chi ci sta accanto. Giocare in squadra significa preoccuparsi, prima di tutto, di come si sente il nostro compagno e, successivamente, di come ci sentiamo noi.

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Julio Velasco, famoso allenatore della nazionale italiana di pallavolo dal 1989 al 1996, oggi speaker nel mondo aziendale, ha affermato che: “Motivare significa dare la carica, dare l’esempio, essere di stimolo e di supporto a chi gioca con noi. Perché da soli è difficile, se non impossibile, vincere”. E, comunque, si ottiene molto meno di quanto si potrebbe produrre lavorando uniti e compatti, come dimostrano i seguenti esempi tratti dall’esperienza sportiva.

I mondiali di calcio del 1982. «Dopo la partita col Camerum che finì in parità, ci ritrovammo spaesati negli spogliatoi. Nessuno di noi aveva voglia di parlare. Penso che molti si vergognassero di come avevano giocato. A un certo punto, Bearzot, il nostro allenatore, iniziò a parlare e fu un discorso che non dimenticherò mai:

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“Ragazzi, credo di aver messo in campo la squadra migliore. Penso che gli schemi provati e riprovati in allenamento siano i migliori oggi praticabili. Sono anche convinto che in quest’occasione nessuno di voi abbia giocato da campione qual è. Nessuno ha saputo tirar fuori ciò che ha dentro, le qualità che ha e per le quali ho scelto di farlo giocare come titolare. Siete dei campioni, ma non riuscite a dimostrarlo. State giocando 11 partite individuali, anziché giocare una partita sola tutti insieme. E così facendo nessuno di voi riesce a dare il meglio di sé e non riuscite neanche a stimolare gli altri a fare altrettanto. Per la prossima partita, io non farò grandi cambiamenti. Sta a voi farli. Sta a voi cercare nel vostro intimo la capacità di esprimere quello che avete. Sta a voi dimostrare di essere dei veri campioni. E potete farlo solo giocando non per voi stessi, ma l’uno per l’altro”». A ricordare queste parole fu Paolo Rossi (1956), attaccante dell’Italia e Capocannoniere del Campionato del Mondo nel 1982 e Pallone d’Oro nello stesso anno, nel suo libro Ho fatto piangere il Brasile (Casa Editrice Limina, pp. 269, Euro 14,90). Prosegue il racconto con particolari ancora più vividi.

«Dopo quel discorso, per tutti i giorni seguenti, cercammo di sostenerci e incoraggiarci a vicenda. In pochi giorni, si formò uno spirito di squadra senza precedenti, in cui ognuno trovava la carica, dandola all’altro. E quando mancavano pochi minuti all’inizio della partita col Brasile, c’era ormai in tutti noi una voglia irresistibile di “spaccare” il mondo, di dimostrarci campioni, di vincere tutti assieme una clamorosa partita». Il resto è storia: quel giorno scesero in campo 11 giocatori trasformati che poi divennero, il 7 luglio 1982 nel celebre Santiago Bernabéu di Madrid, Campioni del Mondo.

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I mondiali di calcio del 2006. La forza del gruppo è stata anche la leva motivazionale che ha permesso alla squadra italiana guidata da Marcello Lippi di conseguire, il 9 luglio 2006 all’Olympiastadion di Berlino, il suo quarto titolo mondiale di calcio. «Ho sempre pensato, ha affermato Lippi nel suo libro La squadra (Casa Editrice Rizzoli, pp. 192, Euro 16), che una squadra non può essere composta da due o tre giocatori che ti fanno vincere due o tre partite. Per vincere un campionato del mondo è determinante che quello più bravo non si senta il più bravo. Ma che siano altri a considerarlo il più capace, perché solo allora si metteranno, naturalmente, al suo servizio. E questo avviene se il più talentuoso non pretende che gli altri lo considerino tale. Per realizzare la continuità è fondamentale il ruolo del gruppo ed è essenziale la complicità fra tutti i giocatori. È determinante che ciascun calciatore pensi: “Io mi metto a disposizione di tutti”, e non “Voglio tutti a mia disposizione”. Noi abbiamo vinto i Mondiali come squadra e non perché fossimo i più forti in assoluto. Ho avuto la fortuna di avere dei giocatori fantastici che hanno compreso, esaltato ed oggettivato il concetto di “gruppo”».

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Il concetto di team sembra essere valido non solo per gli sport di squadra, ma anche per quelli individuali, come dimostra quest’altra testimonianza.

Valentino Rossi: un campione “fuori dalle righe”. Valentino Rossi è considerato tra i più grandi motociclisti di tutti i tempi. È stato, ad esempio, il primo italiano a vincere il Mondiale in tre diverse categorie: 125, 250, 500. Il 25 settembre 2005 è diventato per la settima volta, campione del mondo con la moto Yamaha nella classe 500. Il suo successo? La forza del gruppo come ha dichiarato lo stesso Valentino Rossi nella sua autobiografia Pensa se non ci avessi provato (Casa Editrice Mondadori, pp. 305, Euro 15). «È opinione comune che il motociclismo sia uno sport individuale, visto che in pista c’è il pilota, da solo contro gli altri. Ma in realtà anche questo è diventato, con gli anni e con l’evoluzione tecnologica, uno sport di squadra. Se il pilota non ha un gruppo forte alle spalle, può vincere anche qualcosa, ma non può realizzare imprese straordinarie. Le mie squadre non mi sono mai capitate, le ho sempre scelte, volute e cercate. Quando nel 1993 ho cambiato scuderia passando dalla Honda alla Yamaha ho portato con me il mio team perché ho sempre creduto nella forza del gruppo. Tra noi c’è calma e armonia, ognuno sa cosa deve fare e come farlo. Ci carichiamo l’un l’altro sia che si vinca sia che si perda. Per questo andiamo forti».

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1 + 1 = 3, ecco il risultato che si ottiene quando si riescono a costruire delle squadre vincenti. Questa è una formula che sembra valida in qualsiasi settore venga applicata: dallo sport al lavoro, dalle comunità religiose ai centri di assistenza. Ma come riuscirci? Ken Blanchard e Sheldon Bowles nel loro libro Uno per tutti, tutti per uno (Casa Editrice Sperling&Kupfer pp. 222, Euro 13) svelano un acronimo (disco) che vi aiuterà a realizzare delle squadre di successo.
Date uno scopo chiaro e installate valori e obiettivi condivisi. Create una sfida, una ragione d’essere che impegni e motivi le persone a collaborare. Definite obiettivi e strategie chiare e vincolanti sia per i singoli membri, sia per il team nel suo complesso. Stabilite un patto scritto in cui ciascuno si riconosca nei valori e nei principi del gruppo.
Sviluppate le abilità di ciascuno. Aiutate ciascun componente del gruppo a sviluppare le proprie potenzialità. Favorite un clima di fiducia reciproca per lavorare e “vincere” insieme. Ricordatevi che solo con la forza di un gruppo motivato si possono ottenere risultati straordinari.
Create uno spirito di squadra. Fate vostre le seguenti convinzioni: «Il tutto è maggiore della somma delle parti»; «Le competenze del gruppo sono superiori di quelle del singolo»; «Una squadra è qualcosa di più di un semplice insieme di persone»; «Nessuno di noi sarà forte come tutti noi»; «Uno per tutti, tutti per uno»; «Ognuno in un team, lavora per il bene comune»; «Ciascuno di noi deve essere dedito al bene della squadra».
Orientate le vostre attenzioni sulle azioni positive. Individuate dei comportamenti specifici che contribuiscano allo sviluppo dello spirito di squadra e poi non stancatevi di “sanzionarli” positivamente. Ricordatevi, infine, che in una squadra ad alto potenziale non c’è spazio per le persone disfattiste ma solo per quelle positive.

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Tratto dal mio libro: “Sviluppa il tuo carisma”, Giunti Editore